Probabilmente questo è il primo episodio a mettere il dr. Lecter realmente al centro della narrazione (lo so, lo conosco il titolo della serie), pur essendo il minutaggio equamente diviso con il proseguimento delle indagini sul Chesapeake Ripper. Usciamo dallo studio di Hannibal per seguirlo nelle sue serate mondane, nei suoi dinner-party, nelle sue sedute psichiatriche (cioè, quelle in cui lui fa il paziente). Troviamo anche un paio di briciole sul sentiero del suo passato, scoprendone le originarie fattezze da chirurgo e la successiva trasformazione in psichiatra. Riusciamo a sbirciare il momento in cui la cucina è diventata più che una semplice passione.
I have friends
E l’episodio mette un certo impegno nel sottolineare due aspetti, in particolare, della vita di Hannibal: ciò che lo rende più solo di chiunque gli stia intorno (e la serie non è che sia popolata da compagnoni) e ciò che lo appassiona (non tanto la cucina in sé e per sé. La cucina pare più la parte fisica, sensuale, tattile, del suo rapporto con la carne. Insomma, ‘nothing here is vegeterian’). La solitudine di Hannibal è sottolineata meglio dalle immagini che dai dialoghi: solo nel suo studio, in una stanza vuota, solo fuori dallo studio, in una sala gremita, solo negli occhi della sua psichiatra. Meno efficaci i dialoghi, pur disposti in un crescendo di interesse e puntualità: pessimi quelli con il paziente (di ritorno) Franklin, il cui tentativo di guadagnarsi l’amicizia del dottore al di fuori delle sedute non desta granché interesse e non sottolinea abbastanza marcatamente l’aspetto solitario, isolazionista della personalità di Hannibal. In risalita quelli tra Lecter e la sua psichiatra (Gillian Anderson!): pur scivolando su certe bucce di faciloneria psicologica -person suit, human veil- questo ritaglio di episodio riesce nella sua tentata inversione del ruolo, con Hannibal seduto sulla poltrona del paziente e infilato nei panni di chi presume l’altrui amicizia solo per vederla rimbeccata con stima per il dottore e rispetto per il paziente. Il meglio arriva nelle conversazioni con Will e Alana, con un Hannibal rilassato, loquace e informale, protagonista di chiacchierate il cui intento è sottolineare come il rapporto con queste persone preceda e superi le professioni e le indagini, come se la cosa gli stesse a cuore:
- ‘I have an unconventional psychiatrist’ – ‘Oh, we have that in common’ (Hannibal-Will)
- ‘Will does that too, you know [...], flirtaciously changing the subject. You have that patology in common’ – ‘Or we have just you in common’ (Alana-Hannibal)
Il tutto si aggiunge alla cornice visivamente più amicale: Lecter che offre a Will un drink (dopo essersi accertato di essere parte di una ‘semplice conversazione’); Lecter che cucina insieme ad Alana. Il filo che lega i tre personaggi è tessuto sapientemente, a metà tra passato e presente, tra necessità e sincerità, tra verità e menzogna. Alana riesce a essere centrale senza invadere, senza rubare spazio ai due protagonisti veri, facendo da tramite quando i due non sono assieme, prefigurandosi come punto di contatto e frizione nel rapporto tra dottore e paziente.
Questo percorso di apertura si conclude in maniera più che simbolica: Will in forte ritardo per la sua seduta, Hannibal che lascia lo studio per andargli incontro, per andare a “dargli una mano”. La parte migliore dell’episodio, s’è detto.
Nothing here is vegetarian
Questa frase era destinata a diventare catch-phrase, non ho saputo resistere. Tornando a noi, la passione e la felicità di Hannibal. La cucina, naturalmente, è la risposta. Ma come detto sopra, non sono tanto i fornelli ad attrarre Lecter. Cucinare pare essere, per lui, l’ausiliare di uccidere. E non è un caso che il grembiule, per il nostro cannibale preferito, sia venuto dopo (o abbia affiancato) il camice. La chirurgia ha lasciato una traccia forte (l’Uomo Ferito, l’illustrazione medievale alla quale il modus operandi del Ripper si ispira è lì a dimostrarlo), ma la cucina è ciò che rende piacevole, artistico, bello, il rapporto di Hannibal con la parte più oscura di se stesso. E’ un processo che va oltre la morte, oltre la macellazione, quello della cucina. Sfiora il miracolo nel rendere vitale (nel senso di necessario alla vita) e gustoso (nel senso che è buono) ciò che è morto. Per Hannibal, uccidere e cucinare sono atto I e atto II della stessa opera teatrale, lo stesso attore per due maschere, il macellaio e lo chef. Lecter dà l’impressione di godere della cucina, della tavola, della commensalità (i dinner-party mi hanno sorpreso, tenuti da uno come lui) più che dell’uccidere. Impressione che anche l’occhio dello spettatore riesce a confermare: le scene rappresentanti le cause e l’atto dell’omicidio sono senza colori, notturne, piovose. Tristi. Il fatto non ci è nemmeno mostrato nel suo avvenire. Il montaggio musicale durante il quale Hannibal riempie la dispensa, al contrario, è colorato, musicato, movimentato. L’uomo che quei gesti esprimono sembra felice, rilassato, soddisfatto. E fa impressione pensare a quanto stretto sia il rapporto di causalità tra le due scene.
Questo pezzo d’episodio dedicato a Lecter funziona, a mio avviso. Non fa niente di che o di nuovo (in fondo, è la solita “umanizzazione” del villain, anche se con un cannibale bisogna andarci piano con ‘ste parole), ma riesce a farlo in modo sufficientemente rapido, asciutto, a tratti anche divertente. Mikkelsen fa il suo e non oltre ma, insomma, se interpreti Hannibal Lecter, a fascino vivi di rendita.
It’s an interesting theory
Quello che proprio non funziona, in questa serie, è la parte verticale. Il caso della settimana non riesce ad acquisire vita propria, menomato da due difetti di fondo: sappiamo già chi è il Ripper, sappiamo già che il Ripper non sarà né scoperto né catturato a breve. Puntare sul copy-cat di Lecter o sulle somiglianze accidentali tra gli omicidi di Lecter e gli omicidi di altri non sono sicuro possa reggere il gioco ancora a lungo. Anche perché non si fa altro, tramite questi casi, che dar spazio a ciò che della serie meno convince: le improbabili ricostruzioni (fattuali e psicologiche) di Will. Intendiamoci, io potrei stare a guardare e ascoltare Will per parecchio, perché l’interpretazione di Dancy è favolosa, semplicemente favolosa. Il punto è che la sua “empatia pura” è talmente improbabile da far sorridere (e meno male che non dice più ‘this is my design’) e i monologhi che ne conseguono, ormai, sono tutti atti a sottolineare aspetti del profilo dell’Assassino (Lecter) che ci erano già chiari prima ancora che “Hannibal” cominciasse (succede, quando fai una serie su un personaggio iconico, con alle spalle una filmografia e bibliografia poderosa, per successo, per qualità e quantità). A questo aggiungete le lezioni di Will all’Accademia, e un bel pezzo di ogni episodio se ne va in spiegoni. Prendete il punto in cui, alla fine di una lezione, Will dice: “[...] the Chesapeake Ripper has remained consistently theatrical”. Stacco. Scena in cui Lecter si commuove all’opera. C’è bisogno di essere così didascalici? Lo sappiamo che è lui. Lo sappiamo che è uno spirito sensibile all’arte. Non c’è bisogno di sottolineare.
Mi rendo conto che questa struttura, quella del procedurale, è la più immediata da usare se si vuole, allo stesso tempo, mantenere una certa semplicità narrativa e centellinare gli sviluppi in orizzontale. E, inoltre, tolto il killer della settimana, tolto il gore della settimana, che è parte del fascino della serie. Lo so. Ma puntare, più che sulla settimana, su micro-archi narrativi di 4-5 puntate (come quello del Minnesota Shrike), forse potrebbe esser la soluzione. Centellinare l’uso del “potere” di Will, evitando quelle ricostruzioni davvero troppo, troppo lunghe e particolareggiate ed esatte, limitandolo ai soli momenti centrali della storia, male non farebbe. E, siamo onesti: la serie la guardiamo perché vogliamo Hannibal, vogliamo Will, vogliamo Hannibal e Will. Vogliamo il loro rapporto un po’ alla Death Note, alla Light e Elle, il loro giocare al gatto e al topo. E, allora, siamo onesti fino in fondo e concentriamoci su questo, lasciamo stare contorni tipo l’ossessione di Crawford, le allucinazioni di Crawford, la moglie di Crawford (anche se Gina Torres… Gina Torres). Non c’è niente di male nel fare quello che tutti si aspettano e chiedono: due protagonisti assoluti, il resto comprimari. Sì, lo so che quello lì a Fishburne. Lo so che non lo hanno messo lì per fare il comprimario. Ma, a voi, interessa qualcosa del cancro della moglie? O della morte di Miriam? Si fa di tutto per coinvolgere Crawford con Lecter, profondamente. Ma, a mio avviso, risulta forzato.
Non è perfetta, Hannibal. Credo sia ancora parecchio l’inespresso e il da vedersi, e a un’ ottima forma deve ancora abbinarsi una palpabile sostanza. Diamo fiducia, dico io, e chiamiamole potenzialità inespresse e non difetti. Per il momento.
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